E al processo in abbreviato contro Mannino entrano le carte sul “Corvo 2”
di Aaron Pettinari - 12 giugno 2014 - Audio
“Questo bambino, mio figlio, lo devi pagare fino all’ultimo giorno. Hai capito?”. A parlare è il collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo, ascoltato quest'oggi innanzi alla Corte d'Assise di Palermo nell'ambito del processo Trattativa, rivolgendosi ad uno degli imputati, Giovanni Brusca, già condannato come mandante dell’omicidio del figlio Giuseppe, rapito nel novembre 1993 e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996 su ordine di Giovanni Brusca, per tentare di fermare la collaborazione del pentito con la giustizia. E poi, tra i richiami del presidente Montalto, ha aggiunto: “Bagarella, che cosa hai fatto? Bagarella, questo bambino anche tu lo devi pagare. Mi deve scusare, presidente. Ma ho davanti a me le persone che hanno ucciso mio figlio. Hanno dato da mangiare e da bere a mio figlio e poi lo hanno ammazzato. La dovrete pagare questa ingiustizia fino all'ultimo centesimo”. E' stato sicuramente questo uno dei momenti più drammatici dell'udienza di quest'oggi all'aula bunker dell'Ucciardone.
Rispondendo alle domande dei pm Francesco Del Bene e Vittorio Teresi il collaboratore di giustizia, dopo aver ripercorso la propria “carriera” criminale, ha ribadito alcuni fatti che poche settimane fa aveva raccontato già al processo “Borsellino quater”.
A cominciare dal suo ruolo all'interno della strage di Capaci. “Io partecipai portando un bidone di polvere. Era caricato sul fuoristrada. Diciamo che era polvere, esplosivo, mi bruciava il naso quando mettevamo questa nei sacchetti”. L'ex boss di Altofonte ha poi raccontato di aver visto in prima persona il telecomando che venne usato per l'attentato del 23 maggio 1992. “Eravamo a casa mia. C'erano state diverse riunioni. C'erano Brusca, Gioé, Bagarella, La Barbera. Venivano anche da Catania. Ricordo Salvatore Santapaola, Galea, l'ingegnere Guttadauro ed anche un certo Rampulla. Una volta si preparavano i marchingegni per fare l'attentato. Erano dei telecomandi di macchinette. E questo venne svuotato e creato il marchingegno per l'impulso. Ma non sapevo che si stava preparando l'attentato per Falcone. Della morte di Falcone lo seppi solo la sera dell'attentato”.
E su Capaci ha poi aggiunto: “Cosa nostra ha sbagliato tante volte. Anche noi capivamo che la strage di Capaci era sbagliata. Sono morte un sacco di persone innocenti. Ci ha rovinato a tutti questa decisione. Se Riina ce l’aveva con Falcone perché non uccideva solo lui. Si è messo contro tutto lo Stato. Per me questi non sono atti mafiosi, ma sono atti terroristici. Sono stati uccisi bambini, donne incinte, parlo pure di mio figlio”.
Di Matteo ha parlato anche dell'omicidio di Salvo Lima, prima delle stragi del 1992. "Lima non aveva rispettato i patti con Cosa nostra - ha spiegato - i patti tra il politici e Totò Riina. Non c'era stato l'interessamento sul maxi processo. Loro dovevano cercare di non fare condannare i mafiosi, invece non hanno fatto nulla. La decisione fu presa da Riina, era lui il capo. Sia per Ignazio Salvo che per Lima la decisione fu la stessa. Dovevano morire. I Salvo vennero pedinati, venne pedinato anche il figlio di Andreotti perché il padre era troppo protetto. Loro erano stati i garanti e non avevano rispettato i patti".
Dopo Capaci, via D'Amelio
“Tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio Giovanni Brusca si incontrò con Giuseppe Graviano diverse volte a casa mia. Inoltre, una volta venne Antonino Gioè a prendersi i telecomandi. Mi disse che gli aveva detto Brusca di venire. Io li ho dati a lui e lui li ha dati ai Graviano. Anche in questo caso non sapevo a cosa servissero”.
Anche in questo caso, così come era avvenuto al “Borsellino quater”, Mario Santo Di Matteo ha escluso categoricamente di aver mai parlato con la moglie Francesca Castellese, durante il periodo in cui il figlio era scomparso, né di via D'Amelio né di personaggi infiltrati. “Secondo me c'è stata qualche incomprensione. Non c'è stato nulla”.
Nulla di nuovo, compresi i numerosi mi sembra e non ricordo, così come era già avvenuto a Roma durante l'udienza in trasferta del nuovo processo sulla strage di via D'Amelio.
La trattativa Gioé-Bellini
Rispondendo alle domande dei pm il collaboratore di giustizia Di Matteo ha anche raccontato degli incontri tra il capomafia Antonino Gioé e l'eversore nero Paolo Bellini. Già sentito al processo, Bellini aveva riferito di avere imbastito un dialogo, per conto dei boss, col Ros dei Carabinieri promettendo il recupero di quadri rubati in cambio degli arresti ospedalieri per capomafia di prima grandezza come Luciano Leggio, Bernardo Brusca e Pippo Calò. E la circostanza, in parte, è stata ribadita dal pentito: “Mi ricordo che un giorno Antonino Gioè venne a casa mia con questo Paolo Bellini, che a quanto avevo capito era uno dei servizi. Io gli offrii un caffè. Mi ricordo che si parlava di dover recuperare un quadro ed in cambio, come controparte, c'erano dei favori. So anche di un altro incontro a casa di Gioé dove c'era Giovanni Brusca nascosto dietro la porta per ascoltare quello che diceva Bellini. Poi si doveva riferire tutto a Riina. Si parlava di ammorbidimento del carcere duro e su alcuni processi ma anche di far uscire qualcuno. Ricordo il nome di Bernardo Brusca. Poi mi pare Pippo Calò”.
E dell'ultimo dialogo avuto con Antonino Gioé ha confermato: “Eravamo al carcere di Rebibbia, io stavo passeggiando durante l'ora d'aria. Lui si affaccia dalla finestra, mi sembrava un barbone per come era ridotto. Io gli chiesi come stava se vedeva qualcuno. Rispose che vedeva sempre il fratello e che riusciva ad avere cose buone da mangiare. Io intesi che stava collaborando con la giustizia. Poi si è ammazzato”. Il processo è stato quindi rinviato a domani quando verrà svolto il controesame dell'ex ministro Vincenzo Scotti.
“Corvo 2” sì, Falange Armata no
Sempre questa mattina era prevista una nuova udienza del processo, che si svolge col rito abbreviato, che vede imputato l'ex ministro Calogero Mannino, sempre accusato di minaccia a corpo politico dello Stato.
Il gup Marina Petruzzella si è espressa in merito alla richiesta del pm Roberto Tartaglia, di acquisire agli atti l'anonimo denominato "Corvo 2", in cui si parla di un presunto incontro fra Mannino e il boss Totò Riina, alcuni lanci dell'Ansa su rivendicazioni di attentati da parte della Falange Armata, sigla che secondo la Procura in una fase fu utilizzata da Cosa nostra per rivendicare la paternità di alcuni attentati, e le relazioni di servizio fatte dagli agenti penitenziari del carcere milanese di Opera dopo alcune esternazioni di Riina. Nel loro racconto gli “agenti” rappresentano che Riina avrebbe detto, durane una pausa d'udienza: “Sono stati loro a venirmi a cercare”. Frase che, secondo l'accusa, confermerebbe che fu lo Stato a instaurare la trattativa con Cosa nostra.
Il Gup ha accolto l'acquisizione degli atti inerenti al “Corvo 2” ma non gli altri ritenendoli "non indispensabili". L'udienza è stata rinviata all'8 ottobre, giorno riservato alla requisitoria del pm.
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