C'è una lattina di Coca Cola sulla bara di Daniele Discrede, con su scritto: “Papà”. L'ha messa lì la figlia di otto anni, la bambina che lo ha visto steso a terra, massacrato da ombre senz'anima e senza coscienza. E' qui, a pochi centimetri, la piccola che ha avuto il coraggio di sopportare l'assalto, gli spari, il padre in una pozza di sangue. E' qui con l'altra figlia più grande. Sono due bambine sperdute. Hanno addosso la contentezza dell'infanzia, mischiata alle lacrime. Sono protette, per quanto è possibile, dall'amore di una famiglia valorosa. Sono ancora leggere per tutto questo dolore, per tutte queste facce intorno che nemmeno fanno finta di non piangere. Perciò vanno avanti nella funzione funebre che si celebra a San Giovanni Apostolo, avamposto parrocchiale del Cep, con un doppio smarrimento: il lutto che grava e il sorriso che affiora dalle stesse labbra e dagli stessi occhi.
In prima fila, mentre padre Matteo comincia a dire messa, i familiari di Daniele: il padre e la madre, le sorelle, il fratello Vito. E' stato Vito, un ragazzo umile e laborioso, a prendere le redini nel momento supremo della sofferenza. Sarà lui, alla fine della messa, a pronunciare parole che non dimenticheremo. Un amico di vecchia data sussurra: “La famiglia Discrede è un monumento alla dignità. Vito sta reggendo con forza. Anche a scuola era così. Non mollava mai. Studiava. Voleva sapere. Un ragazzo intelligente, pieno di passione”. La dignità è pane durissimo da masticare. Il viso della mamma di Daniele racconta cose che nessun aggettivo potrebbe. L'orrore che si manifesta in una serata normale. Uomini maledetti che piombano da un inferno sconosciuto per devastare e distruggere. Per aprire una ferita che nessuna benda mai coprirà. Mamma, ti hanno ammazzato un figlio.
Perché hanno ucciso Daniele Discrede? Perché gli hanno sparato? E' la domanda regina di una storia di cronaca nera. Ma qui, tra le panche di San Giovanni, c'è spazio solo per il cordoglio delle esequie. Sono in tantissimi. La chiesa è stracolma. Decalcomanie di ciò che Daniele era. Lavoratori. Uomini con la tuta da benzinaio. Commercianti. I dipendenti della sua attività che proteggono la bara e i parenti con un cordone affettuoso e vigile. E' morto un vicino da casa, è morto uno di noi, è morto un ragazzo buono: questo dice la gente che riempie la navata, senza lasciare il largo per uno spillo.
Accanto alla Coca Cola della figlia, c'è una maglietta azzurra. Daniele era un magnifico giocatore. Un mancino. Possedeva la magia di una finta immarcabile. All'interno, poi all'esterno e tiro di collo sul secondo palo. Tu lo sapevi, lo prevedevi, lo aspettavi al varco. E Daniele ti fregava comunque con un guizzo alla Garrincha. Vito stringe tante mani. Ringrazia: “Mio fratello avrebbe voluto una rimpatriata diversa, non un giorno di lutto – e trova il dolce coraggio di sorridere –. Tutte le persone presenti danno un pezzo di energia. Sono qualcosa di prezioso che alimenta il mio motore rotto”. Vito ha il cuore rotto. La figlia di Daniele presente all'omicidio è stata curata e seguita con raddoppiato amore. “E' rimasta chiusa in un suo mondo invalicabile – raccontano – fino a ieri. Infine, ieri si è disperata, quando a casa hanno bussato i dipendenti delle pompe funebre con la salma del papà”.
Padre Matteo dà fiato a un'omelia bella e vigorosa: “Chi ha fatto questo cammina su un sentiero che conduce alla morte, se non ci sarà conversione. Tutti dobbiamo interrogarci sul senso della nostra vita. Tutti, prima o poi, saremo qui. E se saremo rimasti accanto a Cristo, non moriremo mai. Daniele ha cercato tanto l'amore. Lo ha cercato nelle persone che ha avuto accanto, nella famiglia e nel lavoro. Sappiamo che tutto l'amore che voleva sta germogliando proprio adesso, nella sua nuova vita. Noi speriamo e crediamo”.
Invece, è proprio la speranza che vacilla. A San Giovanni Apostolo si è radunata una generazione che ha, a suo modo, il cuore rotto, come il cuore di Vito, dei suoi genitori, delle sorelle, dei cognati. Abbiamo creduto. Abbiamo sperato. Ci siamo incontrati e scontrati sui campi di calcetto, tra i banchi, nelle feste. A ogni costo – giuravamo a noi stessi – da grandi avremmo cambiato il mondo e anche Palermo. Adesso Palermo e il mondo ci sbattono in faccia una morte di violenza, “frutto di peccato”, secondo la predica di padre Matteo, un atto crudele e disperato, uno strappo che non si rimargina.
All'altare vanno i cognati. Leggono un messaggio. Tocca a Vito: “Mi chiedo spesso come il mio amico avrebbe affrontato un momento del genere, nei miei panni. Era mio fratello e io lo chiamavo il mio amico. Daniele aveva un sorriso sempre pronto, una battuta sempre calda, in qualunque difficoltà si trovasse. Noi siamo cresciuti nell'entusiasmo e nella generosità. Vi prego, aiutateci a non perderli. Aiutateci a non perdere entusiasmo e generosità”. Allora, forse, non è questa la notte per arrendersi. C'è un'ultima finta da provare. C'è un ultimo scarto, per passare, per andare oltre.
La messa è finita. Si spalanca il tratto più duro per chi soffre sulla propria pelle, dentro il proprio cuore. L'affetto resta, ma comincia a sfumare in lontananza. C'è il sole sul Cep, quando Daniele inizia il viaggio con la sua maglietta e con la sua lattina, travolto dagli applausi. Ci sono coloro che lo amano. Tanti. Ci sono le sue figlie. Erano bambine all'ingresso in chiesa. Sono diventate grandi.
FONTE: http://livesicilia.it
PALERMO-In prima fila, mentre padre Matteo comincia a dire messa, i familiari di Daniele: il padre e la madre, le sorelle, il fratello Vito. E' stato Vito, un ragazzo umile e laborioso, a prendere le redini nel momento supremo della sofferenza. Sarà lui, alla fine della messa, a pronunciare parole che non dimenticheremo. Un amico di vecchia data sussurra: “La famiglia Discrede è un monumento alla dignità. Vito sta reggendo con forza. Anche a scuola era così. Non mollava mai. Studiava. Voleva sapere. Un ragazzo intelligente, pieno di passione”. La dignità è pane durissimo da masticare. Il viso della mamma di Daniele racconta cose che nessun aggettivo potrebbe. L'orrore che si manifesta in una serata normale. Uomini maledetti che piombano da un inferno sconosciuto per devastare e distruggere. Per aprire una ferita che nessuna benda mai coprirà. Mamma, ti hanno ammazzato un figlio.
Perché hanno ucciso Daniele Discrede? Perché gli hanno sparato? E' la domanda regina di una storia di cronaca nera. Ma qui, tra le panche di San Giovanni, c'è spazio solo per il cordoglio delle esequie. Sono in tantissimi. La chiesa è stracolma. Decalcomanie di ciò che Daniele era. Lavoratori. Uomini con la tuta da benzinaio. Commercianti. I dipendenti della sua attività che proteggono la bara e i parenti con un cordone affettuoso e vigile. E' morto un vicino da casa, è morto uno di noi, è morto un ragazzo buono: questo dice la gente che riempie la navata, senza lasciare il largo per uno spillo.
Accanto alla Coca Cola della figlia, c'è una maglietta azzurra. Daniele era un magnifico giocatore. Un mancino. Possedeva la magia di una finta immarcabile. All'interno, poi all'esterno e tiro di collo sul secondo palo. Tu lo sapevi, lo prevedevi, lo aspettavi al varco. E Daniele ti fregava comunque con un guizzo alla Garrincha. Vito stringe tante mani. Ringrazia: “Mio fratello avrebbe voluto una rimpatriata diversa, non un giorno di lutto – e trova il dolce coraggio di sorridere –. Tutte le persone presenti danno un pezzo di energia. Sono qualcosa di prezioso che alimenta il mio motore rotto”. Vito ha il cuore rotto. La figlia di Daniele presente all'omicidio è stata curata e seguita con raddoppiato amore. “E' rimasta chiusa in un suo mondo invalicabile – raccontano – fino a ieri. Infine, ieri si è disperata, quando a casa hanno bussato i dipendenti delle pompe funebre con la salma del papà”.
Padre Matteo dà fiato a un'omelia bella e vigorosa: “Chi ha fatto questo cammina su un sentiero che conduce alla morte, se non ci sarà conversione. Tutti dobbiamo interrogarci sul senso della nostra vita. Tutti, prima o poi, saremo qui. E se saremo rimasti accanto a Cristo, non moriremo mai. Daniele ha cercato tanto l'amore. Lo ha cercato nelle persone che ha avuto accanto, nella famiglia e nel lavoro. Sappiamo che tutto l'amore che voleva sta germogliando proprio adesso, nella sua nuova vita. Noi speriamo e crediamo”.
Invece, è proprio la speranza che vacilla. A San Giovanni Apostolo si è radunata una generazione che ha, a suo modo, il cuore rotto, come il cuore di Vito, dei suoi genitori, delle sorelle, dei cognati. Abbiamo creduto. Abbiamo sperato. Ci siamo incontrati e scontrati sui campi di calcetto, tra i banchi, nelle feste. A ogni costo – giuravamo a noi stessi – da grandi avremmo cambiato il mondo e anche Palermo. Adesso Palermo e il mondo ci sbattono in faccia una morte di violenza, “frutto di peccato”, secondo la predica di padre Matteo, un atto crudele e disperato, uno strappo che non si rimargina.
All'altare vanno i cognati. Leggono un messaggio. Tocca a Vito: “Mi chiedo spesso come il mio amico avrebbe affrontato un momento del genere, nei miei panni. Era mio fratello e io lo chiamavo il mio amico. Daniele aveva un sorriso sempre pronto, una battuta sempre calda, in qualunque difficoltà si trovasse. Noi siamo cresciuti nell'entusiasmo e nella generosità. Vi prego, aiutateci a non perderli. Aiutateci a non perdere entusiasmo e generosità”. Allora, forse, non è questa la notte per arrendersi. C'è un'ultima finta da provare. C'è un ultimo scarto, per passare, per andare oltre.
La messa è finita. Si spalanca il tratto più duro per chi soffre sulla propria pelle, dentro il proprio cuore. L'affetto resta, ma comincia a sfumare in lontananza. C'è il sole sul Cep, quando Daniele inizia il viaggio con la sua maglietta e con la sua lattina, travolto dagli applausi. Ci sono coloro che lo amano. Tanti. Ci sono le sue figlie. Erano bambine all'ingresso in chiesa. Sono diventate grandi.
FONTE: http://livesicilia.it
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