Il pentito di San Giuseppe Jato, killer della strage di Capaci, era accusato di avere cercato di riprendersi con le minacce due appartamenti in via Pitrè, intestati a due coniugi di Altofonte.
PALERMO - L'accusa non regge. Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca e il cugino Giuseppe sono stati assolti dal reato di tentata violenza privata. La decisione è del giudice monocratico della seconda sezione del Tribunale di Palermo, Pasqua Seminara. Per entrambi la Procura aveva chiesto un anno di carcere.
Il pentito di San Giuseppe Jato, killer della strage di Capaci, era accusato di avere cercato di evitare che su alcuni beni si abbattesse la scure della confisca e di aver tentato di riprendersi con le minacce due appartamenti in via Pitrè, a Palermo, intestati a due coniugi di Altofonte che erano stati suoi prestanome. All'inizio dell'inchiesta i reati ipotizzati erano l'intestazione fittizia di beni e la tentata estorsione aggravata. Il primo fu cancellato dalla prescrizione, mentre l'estorsione era stata derubricata in violenza privata. Da qui la citazione diretta a giudizio e la competenza del giudice monocratico.
L'indagine era nata nel 2010 quando gli investigatori captarono la conversazione fra il cognato di Brusca con la sorella, Rosaria Cristiano, la moglie del pentito. I carabinieri passarono al setaccio la corrispondenza di Brusca e trovarono una lettera indirizzata all'imprenditore Santo Sottile. I toni erano minacciosi. L'ex capomafia pretendeva la restituzione di diversi beni: “Divento una bestia più di quanto non lo sono stato nel mio passato”, “sono disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali”.
In Tribunale, però, l'accusa non ha retto ed è arrivata l'assoluzione per i due imputati, assistiti dagli avvocati Manfredi Fiormonti, Salvatore Zammataro e Marianna Moncada.
PALERMO - L'accusa non regge. Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca e il cugino Giuseppe sono stati assolti dal reato di tentata violenza privata. La decisione è del giudice monocratico della seconda sezione del Tribunale di Palermo, Pasqua Seminara. Per entrambi la Procura aveva chiesto un anno di carcere.
Il pentito di San Giuseppe Jato, killer della strage di Capaci, era accusato di avere cercato di evitare che su alcuni beni si abbattesse la scure della confisca e di aver tentato di riprendersi con le minacce due appartamenti in via Pitrè, a Palermo, intestati a due coniugi di Altofonte che erano stati suoi prestanome. All'inizio dell'inchiesta i reati ipotizzati erano l'intestazione fittizia di beni e la tentata estorsione aggravata. Il primo fu cancellato dalla prescrizione, mentre l'estorsione era stata derubricata in violenza privata. Da qui la citazione diretta a giudizio e la competenza del giudice monocratico.
L'indagine era nata nel 2010 quando gli investigatori captarono la conversazione fra il cognato di Brusca con la sorella, Rosaria Cristiano, la moglie del pentito. I carabinieri passarono al setaccio la corrispondenza di Brusca e trovarono una lettera indirizzata all'imprenditore Santo Sottile. I toni erano minacciosi. L'ex capomafia pretendeva la restituzione di diversi beni: “Divento una bestia più di quanto non lo sono stato nel mio passato”, “sono disposto ad arrivare fino in fondo, costi quel che costi, e non mi riferisco alle vie legali”.
In Tribunale, però, l'accusa non ha retto ed è arrivata l'assoluzione per i due imputati, assistiti dagli avvocati Manfredi Fiormonti, Salvatore Zammataro e Marianna Moncada.
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